Un articolo di Bernardo Valli, lungo ma molto interessante ...
IL CAIRO - Chi cavalca la rivoluzione, almeno per ora, è la grande forza di destra del mondo arabo: una forza dominante, clericale, reazionaria e liberista: quella dei Fratelli musulmani. A favorirla nella conquista del potere è stato il movimento insurrezionale di piazza Tahrir, democratico, e per sua natura progressista. Il quale ha abbattuto la dittatura del raìs e ha aperto il Paese a libere elezioni: e nelle urne, con la legittimità del voto, i Fratelli musulmani si sono imposti.
Le paure del Paese a due anni dalla fine di Mubarak. Le
speranze dei laici oggi sono riposte nell'esercito che pure, a lungo, era stato
considerato un nemico.
IL CAIRO - Chi cavalca la rivoluzione, almeno per ora, è la grande forza di destra del mondo arabo: una forza dominante, clericale, reazionaria e liberista: quella dei Fratelli musulmani. A favorirla nella conquista del potere è stato il movimento insurrezionale di piazza Tahrir, democratico, e per sua natura progressista. Il quale ha abbattuto la dittatura del raìs e ha aperto il Paese a libere elezioni: e nelle urne, con la legittimità del voto, i Fratelli musulmani si sono imposti.
È stato uno scippo legale. Appropriatisi della rivoluzione,
gli islamisti le hanno dato altri ritmi e altri obiettivi. L'hanno cambiata.
Trascinata in ritardo in piazza Tahrir dai suoi affiliati più giovani, la
conservatrice confraternita dei Fratelli musulmani è stata strappata
dall'opposizione, e ha cominciato sulle piazze in rivolta un aggiornamento
forzato, qualcosa di simile a una rivoluzione interna all'area islamista.
A sdoganare i
Fratelli musulmani hanno contribuito gli americani favorevoli a una svolta
democratica e convinti, a ragione, che gli islamisti moderati sarebbero stati
una forza inevitabile. Ma adeguare alla pratica di governo in un Paese con
forti punte di modernità e altrettante di arretratezza, e in preda a fermenti
democratici, un movimento ancorato a rivelazioni religiose di un millennio e
mezzo fa, esige una transizione lunga e irta di incognite. È il caso egiziano.
In un primo pomeriggio, con un pallido sole invernale che si
riflette sul Nilo, trascorro alcune ore al Ghezira club, nell'isola cairota di
Zamalek, dove sopravvive un campo da golf lasciato in eredità dagli ufficiali
britannici. Lì si riunisce da decenni la borghesia, in cui sono confusi figli o
nipoti o pronipoti della classe aristocratica cancellata dagli "ufficiali
liberi" che nel 1952 cacciarono re Faruk e proclamarono la repubblica.
Rievoco quell'avvenimento storico perché 60 anni dopo al Ghezira club si
confida nei discendenti di quegli ufficiali per contenere l'ondata islamista.
A tratti ho
l'impressione di essere capitato in un fortino dove la società laica borghese
si riunisce nell'attesa che la cavalleria la tragga in salvo. La tazza di
tè vibra nella sua mano tremante per l'emozione, quando una decana del club mi
esalta gli ufficiali ai quali affida la propria sorte. Quegli stessi ufficiali
che al tempo del socialismo nasseriano la spogliarono di quasi tutti i beni.
Poi in parte restituitigli dai raìs più liberisti.
Più che un lamento è
un grido d'allarme: i Fratelli musulmani stanno occupando quella vasta,
inesplorabile foresta che è l'amministrazione egiziana; preparano leggi
liberticide; non è nelle prigioni o nelle loro opere caritatevoli o
nell'esilio, dove hanno sempre vissuto, che hanno imparato a governare: infatti
stanno conducendo il Paese al disastro economico.
Le accuse non sono
rivolte tanto all'azione del governo quanto alle sue intenzioni, meglio ancora
alla sua natura, a quel che i suoi principi religiosi lo condurranno a fare.
Serve a poco sottolineare l'assenza, per ora, di nuove leggi repressive; la
libertà di espressione non seriamente compromessa, se si pensa alle censure in
vigore fino a due anni fa; la non intromissione nella vita quotidiana dei
privati cittadini; le scuse per le violenze della polizia da parte del governo
che per la verità non sempre le evita. La reazione a queste obiezioni è
immediata: si preparano, non hanno fretta, devono inoltre tener conto del
giudizio internazionale, poiché l'Egitto dipende economicamente dall'estero
(per il turismo e gli investimenti) e la situazione è pessima. Ma non
cambieranno. Ribatto che anche dei
comunisti si diceva la stessa cosa. La risposta è decisa: i sovietici avevano
70 anni, qui parliamo di secoli. E poi gli islamisti "sono bugiardi",
non scoprono mai le carte. Barano.
In realtà l'islam
politico espresso nei nostri giorni è stato inventato negli anni Venti con
l'intenzione iniziale di strappare l'islam dalla decadenza riportandolo alla
sua identità religiosa e proteggerlo dai modelli (comunismo e democrazia)
proposti dall'Occidente. Benché non violento, da quel movimento, via via
clandestino, perseguitato, ufficioso, oppositore o complice del potere, si sono
staccati individui tentati o coinvolti nel terrorismo, e si sono sprigionate
frange jihadiste. Ma l'islamismo moderato di oggi non sembra sentire il
richiamo del jihadismo, in declino anche se chiassoso.
La via democratica
scelta risulta tuttavia impervia. Il codice che ne regola il traffico non è
fatto di dogmi religiosi, ma di principi elastici, di tolleranza, e il potere
non è mai assoluto come quello proveniente dall'alto. Insomma, non si sente
sempre a proprio agio chi pensa di interpretare verità rivelate. Non era certo
a suo agio l'ala estrema dell'islamismo, quella salafita, e ha tuttavia
rinunciato a molti principi e ha accettato il gioco democratico presentando
candidati alle elezioni, e conquistando un quarto dei seggi nella Camera bassa.
In quanto alla "sincerità" in termini politici non
è pertinente, in particolare nelle convulse evoluzioni della storia quando è la
realtà a dettare i comportamenti. L'insurrezione
di piazza Tahrir, prima di essere confiscata dagli islamici, ha dato il via a
un processo democratico che ha ampliato abbastanza il formale pluralismo da
vietare all'attuale governo di realizzare i progetti covati quando sognava una
società sottomessa ai principi coranici. Forti e numerosi partiti laici
d'opposizione lo incalzano, lo controllano e ne denunciano gli abusi.
L'evidente esitazione con cui i ministri e lo stesso presidente agiscono può
essere dovuta all'imperizia, all'incapacità, ma anche ai dubbi, ai ripensamenti
paralizzanti. Rivela un travaglio, un dibattito nel partito Libertà e
giustizia, espressione politica della Confraternita dei Fratelli musulmani.
Insomma è più facile immaginare gli islamisti trasformati dall'esperienza al
potere, che pensare a un paese islamizzato da loro, nell'epoca in cui viviamo.
L'Egitto non ha la possibilità di chiudersi come le grandi
nazioni petrolifere, quali l'Arabia Saudita, o il persiano Iran degli
ayatollah. Dipende dall'esterno. Conta inoltre la sua storia e il fatto che vi
viva l'importante collettività copta. Cavalcare una rivoluzione violata non
sarà comunque facile. Per questo i miei
conoscenti del Ghezira club contano sull'esercito, come estremo ricorso. Il
precipitare degli avvenimenti, l'esplosione di violenze sociali, o le
repressioni poliziesche, tutte possibili, possono vanificare i pronostici
ottimisti. E la situazione è giudicata esplosiva da molti.
I militari restano
sullo sfondo. Il governo islamico e il presidente Morsi, eletto al
suffragio universale diretto, devono tenerne conto. Fanno parte del panorama
politico e sociale. E' una peculiarità dell'Egitto. Erano 438mila gli uomini in
servizio e 479mila i riservisti nel 2011. E
sono alla testa di un impero finanziario: controllano in larga parte la
produzione dell'olio d'oliva e dell'acqua minerale, le pompe di benzina e il
mercato immobiliare, l'industria della pesca e vaste aree turistiche...
Si calcola che più di
un terzo dell'economia (alcune valutazioni salgono al 40%) sia nelle loro mani.
Ma il potere e il prestigio di cui usufruiscono provengono anche dal mai
trascurato rapporto con la popolazione. Essere ammessi all'Accademia militare
non è soltanto un onore, ma anche una delle rare occasioni di promozione
sociale per i giovani delle classi meno favorite. Lo spirito dei bikbachis (i
colonnelli) promosso da Nasser, che aveva quel grado quando tramò ed eseguì il
colpo di Stato del '52, impone di non trascurare i mutamenti nel paese.
Il fatto che in tutte
le classi sociali ci siano famiglie con qualche membro nelle Forze armate ha
creato un forte legame tra la gente e la società militare. Ed è proprio una
vera società quella che si è formata in 60 anni, con i suoi club, i suoi
quartieri, le sue scuole, i suoi ospedali; e che per 60 anni ha dato i capi di
Stato, ed è stata la spina dorsale del regime. Ha dovuto anche reprimere
per combattere il terrorismo, controllare i Fratelli musulmani o sedare le
rivolte del pane (come nel 2008), ma in generale l'esercito ha cercato con
abilità di non apparire, pur essendolo, un puro strumento di forza al servizio
del potere. Nonostante le sfortunate
guerre con Israele (1948-'49, 1956, 1967, 1973) i militari non hanno perduto il
rispetto degli egiziani. E a questo ha contribuito, la grande abilità dei
generali, più esperti in politica e in diplomazia che in strategia.
È raro imbattersi in un ufficiale per le strade del Cairo.
Non si nascondono, sono riservati. Anche quello che incontro sul ponte di
Zamalek vorrebbe esserlo, ma impettito com'è, inguainato nella divisa beige,
con le scarpe nere e la cartella sotto il braccio, domina con la sola
silenziosa presenza il quasi completo campionario della folla cairota sul punto
di passare da una sponda all'altra del Nilo. Il giovanotto in divisa, con la
sua espressione distesa, sembra essere il punto di sostegno del caos umano
circostante: donne velate e guantate, ed altre in jeans aderenti, uomini
incollati ai cellulari, facchini impolverati con carichi esagerati sulle
spalle, burocrati altezzosi e ragazzi che urtano i passanti invocando
un'elemosina. Tutti i passanti, tranne uno. L'ufficiale.
Il rispetto per l'esercito ha fatto sperare invano ai
democratici, ai promotori della primavera, che i militari avrebbero finito per
difendere la rivoluzione, anche ritardando le elezioni perché se indette in
gran fretta sarebbero state vinte come è accaduto dagli islamici di gran lunga
meglio organizzati. L'esercito ha
esaudito alcune domande di piazza Tahrir, in particolare ha spinto alle
dimissioni Mubarak, chiuso i suoi figli in prigione, proibito la sua formazione
politica, il Partito nazional democratico, ha incontrato i manifestanti, e
adottato un calendario costituzionale. Ma invece di intendersi con i liberali
di piazza Tahrir e di accogliere le loro rivendicazioni sociali e politiche, la
gerarchia militare ha gestito il dopo Mubarak difendendo i propri interessi, al
fine di mantenersi al potere. In sostanza ha tenuto in piedi il vecchio
ordine istituzionale, ha neutralizzato gli avversari laici e islamisti aizzando
gli uni contro gli altri, è riuscita a mantenere segreto il proprio bilancio e
a conservare il diritto dei tribunali militari di giudicare i civili per alcuni
reati.
Dopo avere scaricato Mubarak la gerarchia ha rinnovato anche
gli alti gradi: ai generali decrepiti sono succeduti generali meno anziani.
Favorendo la gara elettorale, quindi rispettando la formale via democratica, ha
finito con l'appoggiare per a prima volta l'ascesa non solo di un civile ma di
un fratello musulmano alla massima carica dello Stato. Creando di fatto
un'intesa, non gridata ma evidente, tra conservatori militari e conservatori
islamisti. Destinati a controllarsi a vicenda. Gli americani non possono che
essere rassicurati. Finanziano i militari egiziani (un miliardo e 300 milioni
all'anno) in quanto garanti degli accordi di Camp David con Israele, e sanno di
poter contare su di loro per evitare eccessi coranici al governo. Per il momento da piazza Tahrir è nata una
democrazia di stampo militar-islamica. Una democrazia provvisoria.
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