Ahlan wa sahlan amici, oggi vi racconto una storia accaduta all'inizio del mese di novembre ...
Lo chiamerò Giovanni, come il nostro Padre Giovanni. Così lo ha
chiamato Sr. Pina quando lo abbiamo accompagnato da lei all'ospedale italiano,
che vagava da quattro giorni per il Cairo, dimentico della sua identità, della
sua storia.
Un sacchetto di plastica con poche cose, fazzoletti di carta
in un pacchetto dalla scritta italiana, alcuni pezzetti di carta con scritto
qualcosa in arabo. Nella tasca euro, sterline inglesi, qualche lira egiziana e
occhi interroganti, verdi e lucidi di pianto. La barba lunga di quattro giorni
incornicia il volto stanco di un uomo dal linguaggio colto e accento
dell’Italia centrale.
E parla, arrivato al Cordi Jesu, racconta la sua storia dove
implicita è la richiesta d’aiuto che neppure lui sa definire, che in fondo non
ha paura del suo stato, che non lo comprende nella sua pienezza.
E racconta … ho
camminato a lungo, avanti e indietro guardando in alto, cercando punti di
riferimento. E quando ero stanco mi fermavo a dormire lungo il fiume dove un
altro dormiva ... E tutti sono così sorridenti,
continua, e avevo le vesciche ai piedi e
una signora mi ha venduto un paio di calzini dandomi il resto di venti euro.
E narra di essersi scoperto italiano parlando con noi, dopo aver pensato di
essere francese che in quella lingua ha conversato; ma anche germanico, che in
tedesco ha parlato ad una signora lungo il suo peregrinare. E di una scatola
vuota e rovesciata di mele della Val Venosta che gli ha ricordato qualcosa
oltre alla capacità di leggere l’italiano.
Il suo riferimento diventa una chiesa molto grande, che
scopriamo essere la cattedrale ortodossa dove quel giorno avevano eletto il
nuovo papa, vicino ad una grande moschea. Ma quella chiesa, che descriveva così
bene, non l’ha più trovata. Continua così il suo peregrinare.
Si è dunque fermato, ricorda, nella piccola chiesa anglicana
che sta qui vicino, dove si è riposato fino a quando non gli hanno detto che lì
non poteva fermarsi. Ma ha chiesto ad una bambina, prima di andarsene, di avere
trascritti i numeri dai nostri a quelli arabi, che voleva capire.
Uscito, fa quello che ormai è divenuto il suo fare: cammina
e osserva lasciando che i mille pensieri, figli delle immagini lo attraversino
leggiadri. Ci racconta di come gli piace questa sensazione di leggerezza, ci
dice di non aver mai avuto paura e di un sogno, in cui le carte francesi erano
decorate con i simboli dell’Egitto: piramidi, sfinge, faraoni …
Sbalorditi da quest’uomo e dal suo racconto, si decide il da
fare. P. Giovanni chiama Sr. Pina responsabile all'ospedale italiano, una
suora, una donna, che governa con efficienza, disponibilità e maestria situazioni tanto normali quanto di emergenza. Contatta il consolato, ci
richiama dicendoci di portarlo da lei.
Prendiamo la macchina. Il nostro uomo non vuole salire che
teme di disturbare con il suo odore non più di bucato. Lo tranquillizzo: il suo
è, né più né meno, che l’odore del Cairo che tutto pervade diventando
normalità.
Sale davanti, e P. Giovanni abilmente guida nel caos del
centro città. E intanto prosegue il racconto, sempre dettagliato, dei suoi
giorni trascorsi vagabondando. Passiamo davanti alla cattedrale ortodossa, lui
si illumina per averla ritrovata. Poi riconosce la moschea da dove, quel giorno
partiva una manifestazione. Ricorda di essersi inserito nel corteo arrivando così
a piazza Tahrir da dove, col tempo, ha raggiunto Cordi Jesu.
Raggiungiamo l’ospedale. Trovata Sr. Pina che lo battezza Giovanni, dopo avergli dato il benvenuto
e fatte alcune domande, gli prospetta l’iter di controllo sanitario prima di
dargli un letto e la possibilità di lavarsi e cambiarsi. Il nostro ha un moto quasi di vergogna.
Teme di disturbare chiede solo una sedia per poter riposare, anche lì fuori.
Gli sembra troppo quanto gli viene offerto. Alla fine si lascia guidare e noi
lo salutiamo. Riprendiamo la macchina, ancora pieni di stupore e di domande. Le
congetture si susseguono fino al rientro e proseguono nei nostri pensieri anche
durante il sonno.
Il giorno dopo ci informiamo sul suo stato di salute e di
memoria. Niente torna, ma lui sta bene e il consolato ha trovato, grazie a
quanto scritto in arabo su un bigliettino, l’hotel dove lui aveva tutto pronto
per partire il giorno dopo: valigia fatta, cellulare in carica, documenti,
biglietto aereo … l’hotel non si è preoccupato di denunciare all'ambasciata italiana che un suo cliente, di partenza, non era rientrato lasciando tutto
pronto in camera.
Così si risale alla sua identità, ma noi continueremo a
chiamarlo Giovanni per rispetto della
sua privacy. Lui non si riconosce, ma quando gli fanno vedere in internet le
immagini del suo paese natale, si commuove, che le emozioni vanno oltre la
memoria.
Trovano e avvisano la famiglia e il figlio arriva al Cairo a
prenderlo. Noi lo si va a trovare prima della sua partenza.
Conosciamo il giovane figlio di Giovanni e veniamo a conoscere la sua storia.
Una storia non banale, una famiglia allargata, come tante ormai, che sviluppa il suo divenire entro
un’ampia area geografica, fra Italia, Europa e oltre.
Un personaggio colto, come avevamo intuito dal suo
linguaggio, dai modi e dalle mani. Il figlio ne è la conferma.
Giovanni non
riconosce ancora chi è, sa che quello è suo figlio ché glielo ha detto, ci
racconta delle sue vicende familiari come se si trattasse di un altro sé pur
parlando in prima persona. È come se la sua memoria si fosse sconnessa dal suo
cervello lasciandogli solo le capacità acquisite, la memoria da qui all'altro ieri e lo spazio per quello che accadrà.
Guarda il figlio con occhi interrogativi, lo vuole vicino a
sé ché vuole metterci a parte di una domanda che gli ha fatto. Una domanda che
racchiude in sé l’essenza dell’esperienza di padre e di uomo. Una domanda dal
un peso specifico importante, una domanda da segnare nelle nostre agende di
genitori, in questo caso di padri, sulle lavagnette nelle nostre cucine, fra le
note della spesa, per non dimenticare. Una domanda da postare nei social
network, da iscrivere sul frontone del Tempio della famiglia, la nostra casa …
una domanda che coglie nel segno il senso dell’essere genitore: che padre sono stato?
Con questa domanda chiudo il racconto, ringraziando Giovanni per essersi perso, per essere
arrivato da noi a farsi conoscere, per averci consentito di offrirgli il nostro
bene.
Il bene fatto, come insegna P. Giovanni, è gratuito non è
qualcosa che si fa per averne tornaconto. Chi lo riceve lo deve trasmettere a
sua volta. Siamo come delle porte fra le stanze che fanno passare il bene, che
prosegue nel suo cammino in una interminabile sequenza di connessioni. È solo
così che il bene arriva alle nuove generazioni. E più persone si fanno porte, più il bene si amplifica fino a
prevalere portando il mondo dal disordine all'ordine, dal buio alla luce.
Salam amici!
Simonetta
La “perdita” di Giovanni offre occasione di riflessione …
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