sabato 9 febbraio 2013

Aataba, diario del 7 novembre 2012

Ieri abbiamo deciso di andare ad Aataba a cercare il materiale per imballare i prodotti che vogliamo vendere nell'angolo della solidarietà e della salute del Naadi.

È già la seconda ambulanza che cerca di farsi spazio nel traffico bloccato  La sirena continua imperterrita a urlare fintanto che qualcosa non si muove … ecco, è riuscita a passare, i clacson tornano a farla da padroni.

Con Elsa e Sabah abbiamo preso un taxi che, con i tempi obbligati dal traffico cairota ci ha portate al margine di Aataba, quartiere mercato dove ero già stata con Joseph in cerca dei pezzi di ricambio per la Singer e di legno per costruire un attrezzo dove mettere a seccare la pasta fresca fatta in casa.
Il quartiere è diviso per tipo di merce: la zona del legno quella degli imballaggi, delle stoffe, del vestiario, dei macchinari, degli elettrodomestici, di profumi e spezie … eccetera.
Un quartiere esposizione dove tanto viene messo lungo strade e marciapiedi e altrettanto nelle botteghe, negli appartamenti, negli anfratti fra i grattacieli …

Rajo, o Fufi come in alcuni lo chiamiamo, il cagnolino ospite della missione, sta facendo le corse per il lungo corridoio, arriva nell'ampio disbrigo antistante le camere dove si esibisce il spettacolari derapate. Fino ad ora è stato in cortile assieme a Gaston, la mascotte settantasettenne  arabo francese del Naadi. Un personaggio molto particolare, che vive da solo in un grande appartamento non distante da qui. Ogni giorno, con il suo bastone ed un passo piuttosto celere anche se claudicante, se ne arriva al Naadi, si siede all'aperto su una sedia e guarda, controlla, conversa, gira. Potremmo definire la sua un’adozione che ormai è divenuta istituzione.
Io e Gaston ci facciamo grasse risate insieme. Alla mattina lo saluto con un sorridente “bonjour Gaston”, lui mi risponde “Bonjour madame”. Poi mi avvicino e gli do la mano. Lui parla in francese o in arabo, io italiano o inglese. Dunque non ci capiamo! E allora iniziamo a gesti … e giù a ridere!

Giriamo, dunque, per Aataba in cerca di un rotolo di plastica per confezionare sottovuoto i prodotti alimentari, barattoli di vetro sempre a scopo alimentare e un vaporetto di cui nessuno conosce l’esistenza.
Ora passiamo a quanto ho visto.

Non metterò le virgolette ogni volta che vorrò indicare che alla parola che adopero non corrisponde la nostra idea, quale realtà effettiva della cosa. Ad esempio, se scrivo negozio, non intendo il nostro genere di negozio, ma un indefinibile luogo dotato generalmente di scaffalatura e una sorta di banco vendita. Il resto si racconta da sè.

Aataba.
Premessa: una naturale e congenita sporcizia pervade ogni cosa, ogni dove.
Entriamo dunque nel primo negozio dove si vende materiale per imballaggio di alimentari: polistirolo, bicchieri e piatti di palstica, scatole e scatoline, carta per i pasticcini ecc. Elsa chiede, mostrando il nostro campione di merce, se da loro se ne trova. Prendono in mano la cosa, la osservano, saggiano il materiale, e rispondono che non esiste. Così uno, due, tre negozi. Chiediamo in giro e ci indicano un posto “alatul e poi shmell e ancora iimin” (dritto a sinistra e poi a destra) dentro un portone e al secondo piano a shmell.
Camminando in fila indiana sotto un sole ancora molto caldo, ci facciamo largo fra merce e persone, chiedendo indicazioni ogni tanto, fino a giungere al portone. In molti urlano per richiamare l’attenzione sulla propria mercanzia.
Entriamo. Elsa e Sabah proseguono senza alcun sussulto mentre io rimango sbalordita dalla situazione: alla mia destra un venditore di qualcosa è seduto con il suo banchetto. Dietro di lui l’idea di un ascensore, davanti a noi le scale. Definire l’ambiente sporco è poco. Ma dirò solo sporco che altro non saprei dire. Lungo le scale c’è un viavai di persone, assolutamente in sintonia con il luogo. Sui pianerottoli si affacciano aperture che conducono dentro stanze piene di merce. Il tutto senza alcuna luce naturale. Non c’è l’ombra di una finestra.
Dico subito a me stessa che non avrei comprato nemmeno uno spillo in quel luogo, ma tacendo col resto del mondo, seguo le mie compagne fino al secondo piano. Entriamo nella stanza alla nostra sinistra dove si trovano due persone alle quali Elsa chiede le solite informazioni.
Ci mostrano un grande rotolo di plastica doppia che, a parere loro, potrebbe servire allo scopo.
Mi spiace essere così tranchant, ma un secco no esce senza alcuna pazienza dalle mie labbra.
Forse ci posso foderare i libri di scuola con quella plastica, riporre le maglie invernali, ma niente di più.
Ci chiedono, senza consapevolezza, se ne abbiamo bisogno per esportare in Cina, che è quella che usano! Per carità … la Cina, il luogo dove, per eccellenza, si produce merce di scarso valore quando non pericolosa per la salute. Soprattutto dei bambini che lì, in Cina, vengono pure sfruttati.

Made in China.
Qui apro un inciso che il pensiero vi si attarda senza lasciarmi proseguire altrimenti …
Sabah deve comprare una tutina per la piccola Elena, la sua bambina di tre anni. Così ci fermiamo, di passaggio fra le vie degli elettrodomestici dove inutilmente abbiamo cercato il Vaporetto, the plastic zone e la tappa successiva alla ricerca del vetro perduto.
Il primo banchetto è governato, come tutti gli altri, da un maschio. Un giovane maschio. Sabah guarda i colori, cerca la misura della tutina. Io ed Elsa meno interessate ma da brave mamme navigate, con fare sapiente saggiamo la merce. Ad un certo punto mi rendo conto che non c’è nulla, assolutamente nulla che non sia sintetico. Mi chiedo dove sarà finito il famoso cotone egiziano. Cerco le etichette per vedere i componenti: neanche l’ombra. Solo si legge la marca e Made in China.
Dico ad Elsa, interprete fra me e Sabah, di dirle di non prendere nulla che avremmo guardato più avanti.
E così facciamo. Faccio spiegare che indossare tessuti solo sintetici è dannoso. Non vado oltre dicendo che i coloranti dei tessuti che usano in Cina sono tossici.
Al banco successivo altra ricerca. Sabah ha capito e controlla bene i tessuti fino a quando non trova una tutina che, almeno, è garzata all'interno con un leggerissimo tessuto di cotone. Meglio di nulla.
Sono certa che nei grandi centri commerciali dei quartieri in del Cairo si trova anche merce di qualità. Merce che certamente non è dedicata alla maggior parte della popolazione.

Certo che la Rivoluzione ha avuto certamente motivo di essere, peccato che il popolo che è sceso in piazza stremato dalla povertà, non abbia prodotto alcun leader finendo così nelle mani dei Fratelli Mussulmani che erano da tempo organizzati. Spiace dirlo, ma dalla caduta di Mubarak, le cose non sono migliorate per il poplo, anzi … parrebbero peggiorate.

Dunque, imballaggio di plastica non trovato, vaporetto nemmeno, proseguiamo verso la parte del mercato destinata al vetro. Sabah continua a chiedere informazioni. Camminiamo quasi sempre in fila indiana, districandoci fra ostacoli di ogni genere e odori improponibili di cibo. Gatti frugano nelle immondizie gettate a terra mentre alcuni cani gironzolano così, senza capo ne coda. Passiamo accanto ad un locale i cui tavoli, apparecchiati all'aperto  hanno già disposti sopra dei piatti con dell’insalata pronta da mangiare e una stranissima cosa gelatinosa dagli improbabili colori rosa e violetto. Mi si stringe lo stomaco e non voglio nemmeno pormi la domanda di che cosa si tratti. Vorrei evitare di vomitare.
Camminiamo fino a svoltare a iimin dove si snodano, a destra e sinistra, le botteghe che vendono imballaggi di plastica e vetro per creme e profumi. Tutte queste cose contenute in sacchi di plastica disposti lungo la strada.
Del trio io sono sempre l’oggetto dell’osservazione. I capelli grigi, il vestiario diverso, l’età che non corrisponde alla forma del fisico che qui, ad un certo momento si allarga, una lingua diversa. Una sorta di aliena.
Proseguiamo nel caldo delle vie strette che odorano di Cairo. Ancora informazioni, ancora alatul e poi iimin fino ad incamminarci lungo una stradina sterrata quasi in salita.
Mosche. E ancora mosche. Sacchi di plastica bianca lungo una specie di muro di cinta … uomini seduti a far niente o, meglio, ad aspettare. Uomini indaffarati a portare sacchi sulle spalle fino a caricarli su mezzi di trasporto dalla rottamazione certa.
Sabah chiede, ci viene indicato un uomo che sa da boss. Ci guarda strano. Tre donne, una egiziana, l’altra di colore e l’aliena. Quasi non si fida. Ma Elsa è una donna determinata e sa farsi valere.
Così si decide a farci vedere la sua merce. Apre un sacco e compaiono i barattoli: si tratta di vetro riciclato.
Osservo, questa materia è pane per i miei denti e faccio la mia analisi traendo la conclusione.
Sono barattoli usati, separati dall'immondizia del Mokattam, lavati alla bell'e meglio, insaccati nella plastica e messi in vendita. Mi scuso per il gioco di parole, ma io mi rifiuto! Sì, mi rifiuto di pensare che si possa acquistare un prodotto simile per utilizzarlo come vetro riciclato, ancor più per uso alimentare! Sono sbalordita, mi sento offesa per come viene concepito il riciclo. Mi spiace, no, andiamo via, piuttosto compero plastica nuova che vetro sporco.

L’esperienza ad Aataba finisce qui. Questa volta prendiamo la metro, dopo due fermate scendiamo a Sadat e cambiamo linea per arrivare a Nasser, dove si esce su Ramsees street, a casa nostra.
Mentre aspettiamo la metro, chiedo ad Elsa di dire a Sabah che la ringrazio. Le sono grata perché noi abbiamo la possibilità di mangiare a casa dove lei ha imparato, sotto la guida di Padre Giovanni e non solo, a cucinare in modo equilibrato, a tenere pulita la cucina e la casa come siamo abituati in Europa, anche se non sarà mai possibile raggiungere i nostri standard. Ma non è neppure quello che si vorrebbe, perché esagerare non va mai bene.

Ora si tratta di continuare nella ricerca dei materiali. Abbiamo pensato di andare ad una fabbrica di imballaggi che si trova nella città di 6 Ottobre, poco lontano dal Cairo. Lì, se non potremo acquistare le piccole quantità che ci servono, spero che sapranno dirci dove poter trovare quello che vogliamo.

Considerazione finale.
Ancora ua volta non posso che avvertire una profonda mancanza di consapevolezza che nasce dalla mancanza della possibilità di acquisire strumenti in modo diffuso e democratico attraverso lo studio, l’informazione.
La scuola, la formazione e la qualità con qui vengono offerte, sono di primaria importanza. Non si può prescindere da questi elementi se un Paese vuole crescere, in ogni senso. Spero che nel tempo abbia luogo anche una rivoluzione culturale, che la gente chieda di sapere e conoscere per potersi elevare in consapevolezza.

Buona notte.

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