venerdì 15 febbraio 2013

San Valentino il giorno dopo, diario.

Seduta nella mia stanza, con i postumi di un San Valentino festeggiato al Naadi che ci ha visto chiudere, a lavori finiti, alle 3 del mattino, mentre il muazzim ha incominciato la sua litania delle 12.15, in questa pagina di diario prendo nota di alcuni pensieri e sensazioni vissute ieri.
Vedo se riesco a riprendere il filo del mio pensare mentre, nel tardo pomeriggio camminavo verso Zamalek dove avevo appuntamento con Luisella e la sua piccola Sara, per un caffè al Sequoia.
Avevo sentito favoleggiare, e l’avevo anche visto passeggiando lungo il Nilo, di questo luogo come il più noto bar ristorante adagiato sulle rive del fiume. Infatti si trova sull'estrema punta dell’isola di Zamalek, la più grande e centrale del Cairo, un luogo molto “in”.
Devo notare che l’isola, ai tempi di Comboni, era interamente di proprietà dei missionari. Valeva poco quest'isola a quei tempi. Con l’espansione della città la stessa prese valore e così piano piano se ne vendettero dei pezzi e con il ricavato si costruirono le missioni del Sudan.

Dunque parto da Cordi Jesu verso Zamalek. L’appuntamento è alla libreria Diwan sopra la quale abita la mia amica Mona. Michael, un giovane frequentatore di CJ, mi dice di stare attenta. Lo tranquillizzo dicendogli che so come comportarmi. Questo significa non guardare troppo in giro e non fare foto dove c’è molta gente, ad obiettivi non “turistici”, quando sono da sola.
L’atteggiamento è dunque il solito: passo svelto, occhiali scuri, sguardo che non si sofferma mai troppo su nulla, a parte il fatto che è necessario tenerlo spesso basso per evitare di cadere.
Camminare al Cairo, soprattutto nel westelbalad (centro), equivale ad un Camel Trophy al massimo delle sue difficoltà, che cerco di descrivere.

Non potendo contare il numero delle asperità del terreno, marciapiede o strada che sia, descrivo solamente la qualità degli intoppi in cui si incorre. Volendo parlare delle buche, ad esempio, se ne trovano di vario genere, da quelle che corrispondono ad un tombino senza copertura, a quelle create da un cedimento dell’asfalto quando non alla sua inspiegabile assenza qua e là.
Il discorso dei tombini ci porta nel mondo del salto ad ostacoli. Infatti il maggior pericolo s’incontra in presenza di inspiegabili rialzi di dimensioni pari a circa 70 x 70, sparsi lungo i marciapiedi.

Il concetto di marciapiede poi è decisamente alternativo a quello europeo. Al Cairo, ma credo anche nelle altre città egiziane, è il luogo privilegiato sia per l’esposizione della merce dei negozi che per le vendite ambulanti. Ma anche per i dehor di non meglio specificati bar, ritrovi, panetterie, pasticcerie, luoghi per fumare l’hashisha eccetera. La densità di baracchini, tavoli e tavolini, sgabelli, trespoli, carretti spinti a mano o trainati da asini, posati su ruote di futuristiche biciclette o sui tuctuc (la nostra Ape carrozzata) di cui l’Egitto brulica, è pari a quella dei negozi lungo i marciapiedi.
Non di poco conto, poi, sono le fattezze del marciapiede stesso, dove l’alzata per salirvi è generalmente misurabile fra i 30 e 40 cm senza alcun “invito” per chi ha difficoltà deambulatorie. Certo è che, se non altro, non si trovano macchine posteggiate sui marciapiedi.

Ecco che allora mi avvio ad attraversare la strada a sei, sette corsie sotto casa: Ramsees st.
La attraverso nel punto più difficile, solo perché dopo posso godere di una pasteggiata di circa una trentina di metri su un marciapiede largo e quasi senza intoppi. Infatti, è dall'altro lato, dove si affaccia l’ingresso dell’ordine degli avvocati, il luogo privilegiato dagli ambulanti e, quindi, dai passanti e delle manifestazioni.
Per un attimo, quindi, mi sento una “signora a passeggio nel centro del Cairo”.

Questa illusoria sensazione decade improvvisamente quando arrivo alla curva che mi porta a prendere la 26 Luglio st. Di seguito incrocio l’abitazione, con letto a scomparsa, del clochard ivi residente, l’ingresso del metro, un’esposizione a terra di libri di cui non posso apprezzare il contenuto a causa della lingua mentre, innumerevoli appendiabiti, mi parlano di una vendita di abbigliamento. Dopo di che, il marciapiede si restringe e anch'io mi adatto restringendomi per passare tra un Sciu Scià (lucidascarpe in napoletano che ci sta proprio bene) e un chiosco che, costruito proprio sulla stretta curva, costringe i passanti a disporsi in due file indiane fra il chiosco da una parte e le scatole di acqua poggiate alla ringhiera che funge da parapetto con la strada, dall'altra.
Sul finir della strettoia, il parapetto si apre per consentire l’attraversamento. Qui l’avventura continua.

Sopra di me si incrociano due sopraelevate e il traffico che si svolge sotto di queste proviene tutto dalla mia destra: chi arriva da Ramsees st. e chi dalla stazione. Si tratta di attraversare tre strade divise fra loro da “salvagenti” lungo i quali si dispongono a mo’ di capolinea diversi minibus. Non manca anche qualche venditore ambulante, evidentemente della famiglia degli equilibristi. Ecco che il Camel trophy incomincia a farsi impegnativo: scendo dai 40 centimetri del primo marciapiede, mi infilo tra il traffico che arriva dalla mia stessa direzione e che svolta alla sua sinistra e la fila che arriva da destra. Fra di loro nasce il conflitto della precedenza ed io, con uno sparuto drappello di intrepidi passanti, calcolando i tempi come fossimo in una danza tribale, ritmicamente avanziamo tra un’auto e un bus. Una donna più timorosa, forse senza il dono del ritmo, approfittando della nostra determinazione, si accoda.

Raggiunto il primo salvagente, affronto con un ginnico salto i 40 centimetri stringendo la borsa a tracolla.
Combatto corpo a corpo con il flusso delle persone che, sbucando tra le due fila dei minibus, vengono nel senso opposto al mio. Fiera e determinata non mi lascio mettere in disparte da uomini in giacca e cravatta o in galabìa. Ma nemmeno da donne che tentano di nascondere i loro corpulenti corpi dentro informi vesti, veli compresi. 

Ha inizio così la terza tappa della traversata. Ormai sento di avere con me la “forza” e il coraggio necessari a proseguire il percorso: obiettivo Zamalek. Sento perfino la voce di Yoda che mi dice “arduo attraversare il Lato Oscuro è” mentre mi consegna una spada laser.
Senza timori, dunque, la danza continua e termino la traversata godendomi, per un attimo, la Maglia Rosa della tappa.
Per il momento non si prevedono altri importanti attraversamenti se non un paio di piccole laterali e quello prima del ponte. Per cui proseguo facendo attenzione a dove metto i piedi e a non vedermi costretta a improvvisi corpo a corpo con gli altri spericolati avventori della strada.

Il percorso, dopo essere passati davanti al Circolo Ricreativo Italiano nascosto dietro un pesante cancello di ferro, si snoda fra un’interminabile serie di esposizioni che fluttuano fra le porte delle botteghe, il marciapiede e la strada. Il compito del concorrente del Camel Trophy è quello di individuare la strada meno pericolosa e affollata. Su e giù dal marciapiede infilandosi fra le fila degli appendiabiti dislocati ovunque, aggirando esposizioni di pani e dolci, risicati dehor per fumatori di hashisha, e semovibili banchetti dal contenuto indecifrabile.

Il tempo, the weather, sta cambiando. Il freddo sta lentamente lasciando il posto ad un’aria più tiepida. Il vento di febbraio ci regala un cielo azzurro intenso che a momenti si adorna di un velo bianco o di soffici ciuffi di bianche nuvole.

Il lato della strada che preferisco è quello alla mia sinistra, che dopo un po’ smette di essere un mercato a cielo aperto fino a quando non si arriva ai piedi del ponte. Infatti, l’attività si svolge prevalentemente dall'altra parte. Per un attimo posso camminare con una certa libertà di pensiero ed è così che lo sguardo, quasi rapito da una scena da film horror, si rivolge all'altro lato dove, tra file di vestiti appese all'esterno dei negozi, una decina di quarti di bue pendono tranquilli tranquilli in bella vista e alla mercé di insetti e smog.
Vorrei fare una foto, ma mi trattengo che non vorrei, contravvenendo alle regole, incappare nelle pesanti sanzioni del Camel Tropy.
Fotografo questa aberrazione con gli occhi della mente e la piazzo qui, in questa pagina di diario per non dimenticare.

Il tempo sta cambiando, già l’ho detto. Si fa sentire anche negli odori che lentamente riemergono dal freddo invernale. Laddove prima, in dicembre-gennaio, camminavi senza troppi stimoli olfattivi oltre a quello pesante dello smog, ora si dispongono in fila davanti alle tue narici i primi odori tipici: il cibo che lentamente cuoce nei carretti, come l’immondizia che invade ogni dove, sprigionano gradualmente un misto di odori indecifrabili che improvvisamente ti prendono allo stomaco.
È uno dei momenti in cui si corre il rischio di cedere, di non continuare il percorso, di farsi vincere dalle difficoltà. 

Ed è allora, proprio allora che subentra “la forza”. Così, invece di opporti con tutte le tue forze, lentamente incominci a respirare e annusare  cercando di individuare quell'odore che non ti disturba per farlo prevalere sugli altri, alla stessa stregua con cui, il tuo orecchio, senza più inutilmente opporsi, finisce con il riconoscere il cinguettio degli uccellini, dopo aver imparato a convivere con il costante rumore del traffico, del suonare dei clacson, del gracchiare del megafono del muazzim e, infine ma non ultimo del continuo urlare, litigare, propagandare la propria merce con voce tonante del popolo egiziano, nel tentativo di sovrastare il costante rumore di questa megalopoli.
Dunque respiro, aspiro, ascolto e procedo nel cammino. Arrivo in vista del ponte e attraverso agilmente la strada.

Salire sul ponte significa bypassare gruppetti di persone che si accalcano appresso ai microbus che lì fanno fermata e un venditore che, come altri, appoggia il pane direttamente per terra. Eccomi sul ponte.
La sensazione è quella di “elevarmi” dal basso, emergere da quella sorta di umanità informe, indecifrabile, ingovernabile per andare a respirare un po’ più in su …
Questa sorta di levitazione fisica, al limite del meditativo, staccandosi dall'umanità che più sotto brulica instancabilmente, entra in contatto con l’umanità chiusa nelle macchine e nei bus, quella che non stacca mai le ruote dall'asfalto.
In questo momento di estasi meditativa, che cresce mano a mano che salgo il ponte, raggiunge il suo culmine quando, arrivata al colmo, vedo il Nilo.

Ma l’attenzione deve rimanere sempre vigile, non posso perdermi nel suono interiore dell’Om, mantra della mia sopravvivenza. Ora devo attraversare ben due strade per giungere al marciapiede sul fiume. I miei mentori mi hanno insegnato i punti dove attraversare e saggiamente seguo le indicazioni. Arrivo così sana e salva dall’altra parte. L’uomo che “divide le strade” è uno dei punti di riferimento: lui sta lì, immobile per ore e ore, con il suo pane intrecciato, impilato sul bastone di una scopa, ripetendo la solita frase che ne pubblicizza la vendita. Lo chiamerò Giobbe.
Ho smesso di chiedermi quali siano i livelli di piombo e degli altri metalli pesanti presenti nel cibo egiziano e in Giobbe, ovviamente. Capisco però perché l’aspettativa di vita è molto bassa come l’alta presenza di tumori in giovane età.

Giunta sull'altro lato, mi prendo un attimo di sosta per osservare il fiume. Subisco fortemente i suo fascino e soffro nel vedere quanta sporcizia l’uomo gli destina ogni giorno da tempo immemore.
È proprio lì, in quel luogo, in quel momento, che sento forte l’emozione di essere qui. Mi guardo in giro. Pur sentendomi nel traffico, nel caos, nella sporcizia, immersa in questa umanità profondamente inconsapevole  densa di contraddizioni di cui nemmeno percepisce i termini, i confini e che non conosce le proprie potenzialità, qui, in questo preciso momento avverto la presenza di un legame profondo, antico. Un senso di appartenenza che va oltre la mia capacità di comprendere.
E qui, ogni volta, su questo ponte, su questo fiume dove provo questa cosa dentro non posso non scattare una foto, a volte del solo cielo, a volte del solo fiume.
Poi mi sveglio dallo stato di trance e proseguo con altro spirito entrando in Zamalek. Raggiungo Diwan dove trovo Luisella con Sara: due splendide persone.

Prendiamo un taxi e raggiungiamo il Sequoia raccontandoci di noi. Condividiamo pensieri e sensazioni, esperienze; parliamo di Egitto, di egiziani e di rivoluzione. Poi di religione, di come stanno le donne, di come ti senti parte di questa terra e di come, quando te ne vai, ti rimane dentro. Ma entrambe sappiamo adattarci ovunque, che il mondo lo fai tu, ovunque ti trovi.

Bella Luisella, bella la sua piccola Sara. Beviamo una limonata ghiacciata con la menta e assistiamo ad una non annunciata disinfestazione. Un uomo esce da un non meglio precisato luogo di questo elegantissimo posto e, con un erogatore a guisa di bazooka, spara un fumoso veleno che uccide sì moscerini e zanzare, ma penetrando dalle fessure dei vetri della veranda, ammorba l’aria interna. Io e Luisella siamo le uniche ad accorgerci della gravità della cosa e a metterci la pashmina sulla bocca. Proprio come con i lacrimogeni in Tahrir. Un’esperienza di cui ho fatto tesoro e che mi è tornata utile.
Torniamo a casa in taxi, così diverso dal passeggiare, ma sempre un’esperienza forte qui al Cairo.
Arrivata in Cordi Jesu, vado subito al Naadi a dare una mano ad Elsa per finire i preparativi per la festa di San Valentino. Ma questa è un’altra storia.

Giunta sul ponte
Elevare lo sguardo
Sequoia, ingresso parco giochi
Legni, verde, su  sfondo azzurro rannuvolato
Angolo verde
Sguardo sul Nilo
Prove di libertà vigilata

Ri-posare lo sguardo
Accoglienza celeste
Aromi internazionali
Serra egiziana
Vialetto
Sequoia
Sequoia sotto l'assedio del DDT
Nebbia velenosa per tutti




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