domenica 11 novembre 2012

Perdersi al Cairo


Ahlan wa sahlan amici, oggi vi racconto una storia accaduta all'inizio del mese di novembre ... 

Lo chiamerò Giovanni, come il nostro Padre Giovanni. Così lo ha chiamato Sr. Pina quando lo abbiamo accompagnato da lei all'ospedale italiano, che vagava da quattro giorni per il Cairo, dimentico della sua identità, della sua storia.

Un sacchetto di plastica con poche cose, fazzoletti di carta in un pacchetto dalla scritta italiana, alcuni pezzetti di carta con scritto qualcosa in arabo. Nella tasca euro, sterline inglesi, qualche lira egiziana e occhi interroganti, verdi e lucidi di pianto. La barba lunga di quattro giorni incornicia il volto stanco di un uomo dal linguaggio colto e accento dell’Italia centrale.
E parla, arrivato al Cordi Jesu, racconta la sua storia dove implicita è la richiesta d’aiuto che neppure lui sa definire, che in fondo non ha paura del suo stato, che non lo comprende nella sua pienezza.

E raccontaho camminato a lungo, avanti e indietro guardando in alto, cercando punti di riferimento. E quando ero stanco mi fermavo a dormire lungo il fiume dove un altro dormiva ... E tutti sono così sorridenti, continua, e avevo le vesciche ai piedi e una signora mi ha venduto un paio di calzini dandomi il resto di venti euro. E narra di essersi scoperto italiano parlando con noi, dopo aver pensato di essere francese che in quella lingua ha conversato; ma anche germanico, che in tedesco ha parlato ad una signora lungo il suo peregrinare. E di una scatola vuota e rovesciata di mele della Val Venosta che gli ha ricordato qualcosa oltre alla capacità di leggere l’italiano.
Il suo riferimento diventa una chiesa molto grande, che scopriamo essere la cattedrale ortodossa dove quel giorno avevano eletto il nuovo papa, vicino ad una grande moschea. Ma quella chiesa, che descriveva così bene, non l’ha più trovata. Continua così il suo peregrinare.
Si è dunque fermato, ricorda, nella piccola chiesa anglicana che sta qui vicino, dove si è riposato fino a quando non gli hanno detto che lì non poteva fermarsi. Ma ha chiesto ad una bambina, prima di andarsene, di avere trascritti i numeri dai nostri a quelli arabi, che voleva capire.
Uscito, fa quello che ormai è divenuto il suo fare: cammina e osserva lasciando che i mille pensieri, figli delle immagini lo attraversino leggiadri. Ci racconta di come gli piace questa sensazione di leggerezza, ci dice di non aver mai avuto paura e di un sogno, in cui le carte francesi erano decorate con i simboli dell’Egitto: piramidi, sfinge, faraoni …

Sbalorditi da quest’uomo e dal suo racconto, si decide il da fare. P. Giovanni chiama Sr. Pina responsabile all'ospedale italiano, una suora, una donna, che governa con efficienza, disponibilità e maestria situazioni tanto normali quanto di emergenza. Contatta il consolato, ci richiama dicendoci di portarlo da lei.
Prendiamo la macchina. Il nostro uomo non vuole salire che teme di disturbare con il suo odore non più di bucato. Lo tranquillizzo: il suo è, né più né meno, che l’odore del Cairo che tutto pervade diventando normalità.
Sale davanti, e P. Giovanni abilmente guida nel caos del centro città. E intanto prosegue il racconto, sempre dettagliato, dei suoi giorni trascorsi vagabondando. Passiamo davanti alla cattedrale ortodossa, lui si illumina per averla ritrovata. Poi riconosce la moschea da dove, quel giorno partiva una manifestazione. Ricorda di essersi inserito nel corteo arrivando così a piazza Tahrir da dove, col tempo, ha raggiunto Cordi Jesu.

Raggiungiamo l’ospedale. Trovata Sr. Pina che lo battezza Giovanni, dopo avergli dato il benvenuto e fatte alcune domande, gli prospetta l’iter di controllo sanitario prima di dargli un letto e la possibilità di lavarsi e cambiarsi. Il nostro ha un moto quasi di vergogna. Teme di disturbare  chiede solo una sedia per poter riposare, anche lì fuori. Gli sembra troppo quanto gli viene offerto. Alla fine si lascia guidare e noi lo salutiamo. Riprendiamo la macchina, ancora pieni di stupore e di domande. Le congetture si susseguono fino al rientro e proseguono nei nostri pensieri anche durante il sonno.

Il giorno dopo ci informiamo sul suo stato di salute e di memoria. Niente torna, ma lui sta bene e il consolato ha trovato, grazie a quanto scritto in arabo su un bigliettino, l’hotel dove lui aveva tutto pronto per partire il giorno dopo: valigia fatta, cellulare in carica, documenti, biglietto aereo … l’hotel non si è preoccupato di denunciare all'ambasciata italiana che un suo cliente, di partenza, non era rientrato lasciando tutto pronto in camera.

Così si risale alla sua identità, ma noi continueremo a chiamarlo Giovanni per rispetto della sua privacy. Lui non si riconosce, ma quando gli fanno vedere in internet le immagini del suo paese natale, si commuove, che le emozioni vanno oltre la memoria.

Trovano e avvisano la famiglia e il figlio arriva al Cairo a prenderlo. Noi lo si va a trovare prima della sua partenza.
Conosciamo il giovane figlio di Giovanni e veniamo a conoscere la sua storia.
Una storia non banale, una famiglia allargata, come tante ormai, che sviluppa il suo divenire entro un’ampia area geografica, fra Italia, Europa e oltre.
Un personaggio colto, come avevamo intuito dal suo linguaggio, dai modi e dalle mani. Il figlio ne è la conferma.

Giovanni non riconosce ancora chi è, sa che quello è suo figlio ché glielo ha detto, ci racconta delle sue vicende familiari come se si trattasse di un altro sé pur parlando in prima persona. È come se la sua memoria si fosse sconnessa dal suo cervello lasciandogli solo le capacità acquisite, la memoria da qui all'altro ieri e lo spazio per quello che accadrà.

Guarda il figlio con occhi interrogativi, lo vuole vicino a sé ché vuole metterci a parte di una domanda che gli ha fatto. Una domanda che racchiude in sé l’essenza dell’esperienza di padre e di uomo. Una domanda dal un peso specifico importante, una domanda da segnare nelle nostre agende di genitori, in questo caso di padri, sulle lavagnette nelle nostre cucine, fra le note della spesa, per non dimenticare. Una domanda da postare nei social network, da iscrivere sul frontone del Tempio della famiglia, la nostra casa … una domanda che coglie nel segno il senso dell’essere genitore: che padre sono stato?

Con questa domanda chiudo il racconto, ringraziando Giovanni per essersi perso, per essere arrivato da noi a farsi conoscere, per averci consentito di offrirgli il nostro bene.
Il bene fatto, come insegna P. Giovanni, è gratuito  non è qualcosa che si fa per averne tornaconto. Chi lo riceve lo deve trasmettere a sua volta. Siamo come delle porte fra le stanze che fanno passare il bene, che prosegue nel suo cammino in una interminabile sequenza di connessioni. È solo così che il bene arriva alle nuove generazioni. E più persone si fanno porte, più il bene si amplifica fino a prevalere portando il mondo dal disordine all'ordine, dal buio alla luce.
Salam amici!
Simonetta


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